Lo spot de La Stampa che non sembra vero. E il problema è proprio questo

spot la stampa fatto con l'IA

La prima reazione è quasi maligna. Guardi il nuovo spot per il rilancio de La Stampa e la domanda che ti ronza in testa è una: possibile che non abbiano trovato una sola persona in carne e ossa disposta a comparire?

Poi capisci. Quelle figure non sono attori scelti male. Non sono persone vere. Sono creazioni di un’intelligenza artificiale. E l’effetto è straniante. Tutto è palesemente, ostinatamente finto: i volti inespressivi, i movimenti legnosi, le ambientazioni asettiche, persino il giornale che tengono in mano, un oggetto di scena senza peso né anima.

Il risultato non è innovazione, è uncanny valley: quella terra di mezzo in cui una riproduzione artificiale è così simile al vero da risultare inquietante, respingente. Un’esperienza che genera disagio, non coinvolgimento.

E qui nasce un cortocircuito strategico che va oltre la semplice scelta estetica.

Il peccato originale: quando il mezzo tradisce il messaggio

Un quotidiano, per definizione, vende credibilità. Vende fatti verificati, storie umane, analisi del mondo reale. Il suo patrimonio più grande, costruito in decenni, è la fiducia. La promessa implicita che fa al lettore è: “ti racconto la realtà, con accuratezza e umanità”.

Comunicare il rilancio di questo patrimonio usando uno strumento che produce una realtà palesemente artefatta è un controsenso che mina le fondamenta del brand. È come promuovere un ristorante a chilometro zero con foto di piatti liofilizzati. Il mezzo non sta solo comunicando il messaggio, lo sta attivamente contraddicendo.

L’uso dell’IA in questo spot non sembra una scelta creativa al servizio di un’idea forte. Sembra un’idea debole al servizio dello strumento del momento. Sembra un “facciamolo con l’IA perché se ne parla”, o peggio, un modo per tagliare i costi di produzione, senza chiedersi a cosa servisse davvero. È un classico caso di amore per il contenitore che fa dimenticare il contenuto.

Il problema non è l’IA, è come la si usa

Sia chiaro: questo non è un processo all’intelligenza artificiale. L’IA è uno strumento, e come ogni strumento non è né buono né cattivo. Può aprire scenari incredibili, ottimizzare processi, creare forme d’arte mai viste. Il punto, come sempre, non è se usarlo, ma come e perché.

La strategia è inutile se non viene eseguita bene, ma l’esecuzione è un disastro se non poggia su una strategia. Un brand solido sa dire di no a ciò che non serve, anche quando si tratta della tecnologia più scintillante del momento.

In questo caso, l’IA avrebbe potuto essere usata in modo intelligente. Per creare data visualization animate che rendessero comprensibile un’inchiesta complessa. Per personalizzare l’esperienza di lettura dell’utente sull’app. Per potenziare il lavoro dei giornalisti. Avrebbe potuto essere un alleato della realtà.

Invece, è stata usata per creare una scorciatoia che simula la realtà, finendo per svuotarla di ogni significato. È l’intelligenza artificiale lasciata da sola a lavorare, senza una guida umana che le desse un’anima, uno scopo. È un pennello che dipinge da solo, senza un pittore che abbia qualcosa da dire.

Si parla a persone, non a manichini digitali

Ogni azione di comunicazione dovrebbe puntare a creare una connessione. A parlare a persone, non a target anonimi. Questo spot, invece, alza un muro. Quelle figure digitali non invitano all’immedesimazione, non raccontano una storia, non trasmettono un’emozione. Sono manichini vuoti.

Se l’obiettivo era comunicare un giornale più moderno e vicino ai lettori, il risultato è l’esatto opposto. Lo spot trasmette freddezza, distanza, artificiosità. Fa apparire il brand non come innovativo, ma come un’entità che ha perso il contatto con la realtà umana che dovrebbe raccontare. È comunicazione che sembra intelligente, ma non è fatta per essere capita o sentita.

La tecnologia, usata così, non è un ponte verso il pubblico. È uno specchio in cui l’azienda guarda sé stessa, compiaciuta del proprio virtuosismo tecnico, dimenticandosi chi c’è dall’altra parte dello schermo.

Il vero rischio, oggi, non è rimanere indietro tecnologicamente. È adottare ogni novità senza pensiero critico, perdendo di vista la ragione per cui comunichiamo.

La domanda, alla fine, non è se usare o meno l’intelligenza artificiale. La domanda è: abbiamo ancora qualcosa di umano da comunicare?

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