Il brand potato troppo: perché il minimalismo a tutti i costi ci sta rendendo invisibili

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L'effetto del brand minimalism e del blanding sui loghi della moda

C’è un’arte nel giardinaggio, una saggezza silenziosa che si manifesta nel gesto della potatura. Un buon giardiniere non si avvicina a una pianta con l’idea di tagliare il più possibile. Si avvicina con rispetto. Osserva, tocca, valuta. Conosce la differenza tra un ramo secco che toglie energia e un ramo giovane che, se lasciato crescere, porterà i frutti migliori.

Le sue forbici sono precise. Ogni taglio è un’intenzione: dare più luce, rafforzare la struttura, incoraggiare una fioritura più ricca. La potatura, quando fatta con sapienza, è un atto di cura che nasce da una visione chiara del futuro della pianta. L’obiettivo non è avere una pianta più piccola o più ordinata. È averla più forte, sana, e con una forma che ne esalti il carattere unico.

Nel mondo del branding, da qualche anno, sembra che molti abbiano dimenticato la delicatezza delle forbici per abbracciare la brutalità della motosega. La rincorsa al minimalismo, nata come nobile ricerca dell’essenza, si è trasformata in una potatura indiscriminata che non rafforza, ma mutila. Sta creando un paesaggio di brand talmente puliti da risultare sterili.

L’era del “Blanding”: perché la paura ha più stile delle idee

Il fenomeno ha un nome che è tutto un programma: “blanding” (da bland, insipido, scialbo). È la tendenza globale a spogliare i brand di ogni complessità, di ogni tratto distintivo, per adottare un’estetica omologata. Le ragioni dietro questa corsa all’anonimato sono un mix di necessità tecniche e, soprattutto, di psicologia.

Da un lato, c’è la tirannia degli schermi. Un logo oggi deve funzionare in un’icona di un’app, in un favicon del browser, in un post di Instagram. La complessità grafica è nemica della leggibilità su piccola scala. E questo è un dato di fatto.

Ma il motivo più profondo è un altro: la paura. Oggigiorno, avere carattere significa anche correre il rischio di non piacere a tutti. Un’identità forte può essere divisiva. E allora, per paura di sbagliare, si sceglie di non scegliere. Si opta per un carattere sans-serif, pulito e impersonale, perché è l’opzione più sicura. È il beige della comunicazione: non entusiasma nessuno, ma non offende nessuno. È il trionfo del design da comitato, dove ogni spigolo viene smussato fino a che non rimane più nulla.

Autopsia di un logo: cronache dal cimitero del sans-serif

I risultati di questa epidemia di “blanding” sono sotto gli occhi di tutti. Basta guardare l’immagine che accompagna questo articolo. Decine di brand, soprattutto nel settore del lusso dove la distintività dovrebbe essere legge, hanno seguito lo stesso, identico copione.

Prendiamo Burberry. Il suo logo storico era un piccolo capolavoro: il cavaliere equestre, fiero e dinamico, e un carattere graziato, elegante e inconfondibilmente britannico. Raccontava una storia di tradizione, artigianalità e nobiltà. Il nuovo logo è un carattere stampatello, bold, sans-serif. Potrebbe appartenere a una compagnia aerea, a una startup tecnologica o a una marca di pneumatici. È pulito? Sì. È Burberry? Non più. O meglio, sembra che si siano accorti della cavolata che hanno fatto e si siano “rassegnati” a tenere il cavaliere equestre.

Lo stesso è accaduto a Saint Laurent, che ha amputato “Yves” dal nome, a Balenciaga, a Balmain, a Berluti. Hanno sacrificato loghi unici, che contenevano decenni di storia, sull’altare di una modernità che li ha resi indistinguibili. Non è un’evoluzione, è una rinuncia.

Il costo dell’anonimato: cosa muore quando si pota troppo

Questa potatura selvaggia non è un’operazione estetica indolore. Ha costi enormi, anche se non sempre appaiono subito a bilancio.

  • Si perde la riconoscibilità. In un mercato saturo, la riconoscibilità è tutto. Un logo generico aumenta il carico cognitivo del consumatore, che deve faticare di più per capire chi sta parlando. Si distrugge quell’immediatezza visiva che è un patrimonio inestimabile.
  • Si perde il collegamento emotivo. Le persone non si legano alla perfezione sterile. Si legano alle storie, al carattere, persino alle stranezze. È come preferire un volto umano, con le sue rughe d’espressione, a un manichino di cera. Quelle che vengono tagliate via sono le “imperfezioni” che rendono un brand amabile e umano.
  • Si perde la memoria storica. Cancellare un logo storico è un atto di superbia. Significa dire al proprio pubblico che tutto ciò che è venuto prima non conta più. È una voglia di nuovo che, come abbiamo visto anche parlando del rebranding di Jaguar, rischia di recidere il legame con i clienti più fedeli, quelli che si erano innamorati di una storia, non di un font.

L’alternativa: la potatura come atto di intelligenza strategica

Il punto, sia chiaro, non è demonizzare il minimalismo. È distinguere il minimalismo pigro da quello strategico. Quest’ultimo non è assenza di idee, ma il risultato di una disciplina rigorosa che distilla l’essenza di un brand. È togliere tutto il rumore di fondo per far risaltare il segnale, la voce unica.

Il buon design, come il buon giardinaggio, toglie solo ciò che non serve, per far risaltare ciò che conta davvero.

Un’operazione di potatura strategica parte dalle domande, non dalle soluzioni estetiche:

  1. Quali sono i nostri “Distinctive Brand Assets”? Quali colori, forme, caratteri o simboli sono inequivocabilmente nostri nella mente del pubblico? Questi non si toccano. Si proteggono.
  2. Questo elemento è rumore o musica? Aiuta a raccontare la nostra storia o crea solo confusione?
  3. Cosa vogliamo comunicare con questa semplificazione? Chiarezza, efficienza, modernità? O stiamo solo cercando di nasconderci nella folla?

Un brand come Apple è il maestro di questa disciplina. La sua estetica è pulitissima, ma ogni elemento è carico di significato e personalità. Il minimalismo di Muji non è uno stile, è una filosofia anti-brand che pervade ogni prodotto. Questa è semplicità significativa, non vuota.

Un brand, come una pianta, ha bisogno di radici riconoscibili per crescere forte e prosperare. Prima di prendere in mano le forbici per inseguire la moda del momento, assicuriamoci di sapere quali rami portano i frutti. E quali, invece, l’anima.

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