Rebranding Jaguar: quando la voglia di nuovo rischia di cancellare l’anima (e i clienti)

Rebranding Jaguar

Immagina di avere tra le mani un marchio storico, un nome che evoca non solo eleganza e potenza, ma un intero immaginario, un sedimento di decenni di storie, sogni e status. Un giorno, però, la sirena del “nuovo a tutti i costi” inizia a cantare. Decidi che è ora di cambiare tutto, di proiettare il brand nel futuro in modo così radicale da lasciare indietro persino la sua essenza, quasi vergognandotene. Ma fino a che punto puoi spingerti prima di perdere te stesso e, soprattutto, chi ti ha scelto e amato fino a ieri? Il recente e discusso rebranding di Jaguar, iniziato con la campagna “Copy Nothing” nel novembre 2024 e culminato, appena sei mesi dopo, nel maggio 2025, con la notizia della ricerca di una nuova agenzia di comunicazione, è un manuale pratico di questo dilemma. Una storia che dovrebbe far riflettere chiunque si occupi di brand.

Perché i brand storici sentono il canto (a volte stonato) del cambiamento?

Non è un mistero: i marchi con una lunga storia alle spalle, specialmente nei settori del lusso e dell’automotive – dove l’identità è tutto – si trovano spesso a un bivio esistenziale. Da un lato, c’è la pressione, spesso fortissima, di rimanere rilevanti in un mercato che corre veloce. Bisogna attrarre un pubblico nuovo – i famosi Millennials e Gen Z, che si presume siano più “design-minded”, sensibili a temi come l’inclusività, la sostenibilità e affamati di innovazione tecnologica (la transizione all’elettrico è solo la punta dell’iceberg). Si guarda ai nuovi ricchi, ai mercati emergenti. Dall’altro, c’è il rischio, altrettanto concreto, di alienare la clientela storica, quella che ha costruito il successo del brand, fedele all’heritage, ai valori e all’immagine consolidata. Sono loro, spesso, i veri ambasciatori del marchio, quelli che ne conoscono ogni sfumatura.

Il mercato spinge, i competitor nativi digitali o più agili sembrano dettare le regole, le tendenze di consumo evolvono con una rapidità che può spiazzare. La tentazione di un “reset” completo, di una tabula rasa per riscrivere la propria storia da zero, può sembrare la via più coraggiosa, quasi eroica. Ma il coraggio, nel branding, se non supportato da una strategia lucida e da una profonda comprensione della propria essenza, può facilmente trasformarsi in incoscienza. E l’atterraggio, di solito, è doloroso.

Il caso Jaguar: troppo “nuovo” per essere vero, o troppo lontano da sé?

Jaguar ha provato a fare il grande salto, forse un salto triplo carpiato senza aver controllato la profondità della piscina. La campagna “Copy Nothing” era un manifesto d’intenti chiaro: un distacco netto dal passato, un posizionamento ultra-moderno, quasi concettuale, talmente focalizzato sull’unicità da risultare, paradossalmente, generico nella sua pretesa di originalità. L’obiettivo, sulla carta, era scrollarsi di dosso un’immagine forse percepita come un po’ polverosa, elitaria in senso tradizionale, e parlare un linguaggio fresco, inaspettato. Le critiche, però, non si sono fatte attendere e sono state feroci, non solo dagli addetti ai lavori ma anche dal pubblico. Molti hanno percepito una distanza siderale dall’identità storica del Giaguaro, una comunicazione talmente astratta e focalizzata sul “non essere” qualcun altro da risultare fredda, quasi anaffettiva, e soprattutto irriconoscibile.

Poi sono arrivati i numeri, quelli che non mentono. Un calo delle vendite che, secondo le indiscrezioni, ha fatto suonare più di un campanello d’allarme ai piani alti, fino alla decisione, quasi inevitabile, di cambiare rotta e cercare una nuova guida per la comunicazione. La domanda che tutti si sono posti è stata: Jaguar ha “stretchato” troppo la sua identità? Ha tirato così tanto l’elastico della sua essenza da spezzarlo? Tutto fa pensare di sì. Perché la volontà di “non copiare nessuno”, se portata all’estremo, rischia di farti dimenticare chi sei. E se chi ti conosceva bene non ti riconosce più, e chi non ti conosceva prima non capisce chi dovresti essere ora, a chi stai parlando esattamente? Finisci per urlare in una stanza vuota.

Il concetto di brand overstretching qui calza a pennello: si tenta di estendere il brand a un territorio così lontano dal suo nucleo originario da perdere credibilità e coerenza. È come chiedere a un rinomato ristorante stellato di iniziare a vendere hamburger da fast food con la stessa insegna: potrebbe funzionare? Forse, ma il rischio di diluire il valore del brand principale è enorme.

I pericoli di un’identità “photoshoppata” all’eccesso: quando il Re è Nudo

Quando un brand, soprattutto uno con un heritage importante, decide per un rebranding estremo, i rischi non sono solo “dietro l’angolo”, ma sono spesso mine pronte a esplodere sotto i piedi della strategia. E possono costare molto, molto cari:

  • Perdita di riconoscibilità e familiarità
    Il primo, ovvio e più immediato pericolo. Se cambi logo, colori, tono di voce e immaginario in modo radicale, la gente semplicemente non ti riconosce più. Quel patrimonio di familiarità, di associazioni mentali positive (o anche solo neutre ma consolidate) costruito in decenni di presenza sul mercato, svanisce come neve al sole. È come cambiare i connotati a una persona cara: il disorientamento è assicurato.
  • Alienazione della base clienti storica (e più fedele)
    Chi ti ha amato per quello che eri, per i valori che rappresentavi, per le emozioni che suscitavi, potrebbe non ritrovarsi affatto nel tuo nuovo “io” artificiale. Questa clientela, spesso la più leale e meno sensibile alle fluttuazioni di prezzo, potrebbe sentirsi tradita, o semplicemente non più in sintonia, e cercare altrove quella coerenza e quei valori che non percepisce più nel “nuovo” brand. E recuperarla è un’impresa titanica.
  • Comunicazione nel vuoto o, peggio, dissonante
    Un messaggio troppo lontano dalla realtà percepita del brand, o talmente astratto e concettuale da risultare incomprensibile ai più, rischia di non arrivare. O peggio ancora, di risultare confuso, pretenzioso o addirittura ridicolo. Se cerchi di piacere a tutti con un linguaggio che si presume universale ma che in realtà è indefinito, finisci per non essere convincente per nessuno in particolare. La comunicazione diventa un rumore di fondo.
  • Danno profondo alla brand equity
    Anni, a volte generazioni, di investimenti in marketing, in qualità del prodotto, in servizio clienti, per costruire un valore di marca solido (la cosiddetta brand equity di cui ho parlato anche in questo articolo) possono essere erosi rapidamente, a volte irrimediabilmente, da una strategia di rebranding avventata. La fiducia è una valuta preziosa e difficile da guadagnare, ma facilissima da perdere. E la brand equity non è un concetto astratto: si traduce in premium price, in lealtà, in capacità di attrarre talenti e partner.

L’arte dell’equilibrio sottile: evolvere senza sradicare, innovare senza tradire

Nessuno sano di mente sostiene che un brand debba rimanere imbalsamato, uguale a se stesso per l’eternità. Il mercato è un organismo vivente, e l’evoluzione è non solo necessaria, ma spesso vitale per la sopravvivenza e la prosperità. Deve, però, essere un’evoluzione organica, non una metamorfosi che cancella il DNA, che recide le radici. Come si fa? Trovando quel difficilissimo, ma fondamentale, equilibrio tra innovazione e coerenza. Si tratta di innestare con sapienza elementi di novità – che possono riguardare il prodotto, il linguaggio, i canali, l’esperienza – sulla solida base dei valori fondamentali, della storia autentica, di ciò che ha reso quel brand ciò che è nel cuore e nella mente delle persone.

Prendiamo un esempio come Porsche: pur avendo introdotto innovazioni di rottura e modelli che inizialmente hanno fatto storcere il naso ai puristi più accaniti (basti pensare alla Cayenne, poi alla Panamera, e infine alla Taycan completamente elettrica), non ha mai tradito la sua anima sportiva, la sua eccellenza ingegneristica, il suo design immediatamente riconoscibile. Ha saputo allargare la famiglia, attrarre nuovi segmenti di clientela, senza rendere il marchio irriconoscibile o snaturarne l’essenza. Anche Mini, con il passaggio sotto l’ala di BMW, è un caso interessante: è riuscita a modernizzarsi profondamente, a creare un brand lifestyle forte e desiderabile, mantenendo però chiarissimi e giocosi richiami al design e allo spirito irriverente dell’originale. Ha reinterpretato l’heritage, non l’ha rinnegato.

Certo, non tutti i rebranding radicali sono destinati al fallimento. Burberry, per un lungo periodo sotto la guida di Christopher Bailey prima e poi con gli scossoni stilistici di Riccardo Tisci e Daniel Lee, ha saputo rinnovarsi profondamente, giocando con i codici storici (il check, il trench) e una nuova estetica, riuscendo a parlare a nuove generazioni e a rinfrescare la sua immagine. Gucci, con la rivoluzione estetica e narrativa di Alessandro Michele, ha vissuto anni di crescita esponenziale, attingendo a piene mani dall’archivio ma rielaborandolo in chiave massimalista e contemporanea. Sono però percorsi che richiedono una visione strategica profonda, una comprensione chirurgica del proprio DNA e, non da ultimo, una buona dose di fortuna e tempismo. E spesso, anche questi successi hanno una data di scadenza, richiedendo ulteriori aggiustamenti.

Cosa ci insegna la sbandata (costosa) di Jaguar? Lezioni non richieste ma utili

Il caso Jaguar è una lezione che arriva direttamente dal mercato, servita su un piatto d’argento (o forse, in questo caso, un piatto un po’ ammaccato e costoso). Ci ricorda con forza che il branding non è solo questione di estetica accattivante, di loghi moderni o di campagne pubblicitarie ad effetto. È, prima di tutto, identità profonda, promessa mantenuta, relazione costante e coerente con il proprio pubblico.

Prima di imbarcarsi in un’avventura di rebranding, soprattutto se si prospetta radicale, un marchio e i suoi manager dovrebbero sedersi attorno a un tavolo e porsi alcune domande scomode ma assolutamente necessarie. E le risposte dovrebbero essere brutalmente oneste:

  • Il “perché” reale
    Perché lo stiamo facendo, davvero? È una reale necessità strategica o stiamo inseguendo l’ultima tendenza o, peggio, il capriccio di qualcuno? Qual è il problema di business o di percezione che vogliamo risolvere con questo cambiamento? Senza una diagnosi precisa, la cura può essere peggiore del male.
  • Il rischio calcolato (o sottovalutato)
    Chi rischiamo di perdere per strada intraprendendo questa nuova direzione? Abbiamo quantificato l’impatto potenziale sulla nostra base clienti attuale? E siamo pronti, come azienda, a pagarne il prezzo, anche nel breve termine?
  • Autenticità vs. aspirazione forzata
    Il nuovo posizionamento, la nuova immagine, il nuovo tono di voce sono credibili e autentici per noi, per la nostra storia, per le nostre competenze reali? O stiamo solo cercando di indossare abiti non nostri, inseguendo un’immagine che non ci appartiene e che il pubblico percepirà come finta?
  • L’heritage: zavorra o trampolino?
    La nostra storia, il nostro passato, sono un peso da cui liberarci il prima possibile o un tesoro di storie, valori e riconoscibilità da reinterpretare con intelligenza e creatività per il futuro? Spesso, la risposta più coraggiosa e proficua è la seconda.
  • Ascolto attivo
    Abbiamo davvero ascoltato i nostri clienti, quelli fedeli e quelli che vorremmo conquistare? Cosa amano di noi? Cosa si aspettano? Un rebranding calato dall’alto, senza un reale confronto con il mercato, è quasi sempre destinato a incontrare resistenze.

A volte, la vera innovazione – quella che lascia il segno e costruisce valore duraturo – non è nel cancellare il passato con un colpo di spugna, ma nel saperlo rileggere con occhi nuovi, con la sensibilità del presente, trovando modi inediti e rilevanti per raccontare una storia che ha ancora molto da dire. Stiracchiare la propria identità fino a deformarla, nel disperato tentativo di sembrare qualcun altro o di piacere a un pubblico indefinito, spesso porta a una sola, amara conseguenza: smettere di essere credibili. E un brand senza credibilità è come un motore potente che gira a vuoto: fa molto rumore, consuma molte risorse, ma non porta da nessuna parte.

Vi lascio qui di seguito il video di presentazione del rebranding:

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