Atterri a Lisbona. Mentre aspetti i bagagli, un video immersivo ti porta tra le onde dell’Algarve e i vicoli dell’Alfama. Atterri a Copenaghen, e il design nordico ti accoglie già nel layout pulito della segnaletica, accompagnato da messaggi che parlano di sostenibilità e hygge. Atterri in Irlanda e, prima ancora di ritirare l’auto a noleggio, ti senti già sulla Wild Atlantic Way.
Poi atterri in Italia. A Roma, Milano, Venezia. E la prima cosa che il tuo sguardo incrocia, stanco dal viaggio ma pieno di aspettative, non è un benvenuto nella terra della cultura, del cibo o della bellezza. È la pubblicità di un orologio da ventimila euro. O di una borsa che costa quanto l’intero viaggio.
Ti sei mai chiesto perché?
Non è una sensazione, è una scelta strategica. O meglio, la conseguenza di un vuoto strategico. Negli aeroporti italiani, il primo punto di contatto fisico con milioni di visitatori internazionali non racconta il nostro Paese. Racconta i prodotti di lusso. Deleghiamo la nostra comunicazione di benvenuto a brand terzi, per quanto prestigiosi.
È un paradosso che merita un’analisi, perché svela come l’Italia, una superpotenza culturale, tratti il suo brand più importante: sé stessa.
Il primo touchpoint è quello che conta
Nella costruzione di un brand, ogni punto di contatto (o touchpoint) con il pubblico ha un peso. Alcuni, però, pesano più di altri. L’aeroporto non è solo un’infrastruttura, è il primo “handshake”, la stretta di mano tra il Paese e il visitatore. È il momento in cui l’aspettativa incontra la realtà.
Ignorare la potenza comunicativa di questo momento è un errore da principianti. Lasciare che a definire quella prima impressione sia un brand commerciale significa, di fatto, abdicare al proprio ruolo di narratore. Significa permettere che la prima frase che l’Italia rivolge a un turista non sia “Scopri la mia anima”, ma “Guarda cosa puoi comprare”.
Si crea una dissonanza narrativa. I turisti arrivano cercando la promessa della Dolce Vita, l’autenticità dei borghi, il sapore della tradizione. E noi li accogliamo nel tempio del retail globale, uno spazio esteticamente identico a quello di Dubai o Singapore. È un messaggio che, inconsciamente, svaluta l’unicità del “prodotto Italia” e lo riduce a un semplice sfondo per transazioni commerciali.
“Open to Meraviglia”: la prova del nove di un sistema che non comunica
E qui, il pensiero non può che andare alla campagna “Open to Meraviglia”. La Venere-influencer, le polemiche infinite, i meme. Mettiamo da parte per un attimo i giudizi sull’esecuzione. L’intento strategico era corretto: creare un contenitore unico e riconoscibile per promuovere il brand Italia nel mondo.
Il fallimento reale di quella campagna non sta tanto nella resa grafica, ma nella sua totale assenza proprio dove sarebbe servita di più.
Immagina per un istante uno scenario diverso. Immagina di atterrare a Malpensa e trovare, al posto dell’ennesimo spot di profumi, un visual gigante con la Venere che indica il Duomo di Milano, con il claim “Welcome to Lombardy. Open to Meraviglia”. Immagina di attendere i bagagli a Catania vedendo scorrere sui monitor le immagini delle Eolie o del barocco di Noto, sotto lo stesso cappello comunicativo.
Sarebbe stata una strategia di una coerenza disarmante. Invece, mentre online si dibatteva, i luoghi fisici della comunicazione turistica rimanevano saldamente in mano ad altri. Questo dimostra una verità scomoda: una buona idea senza una strategia di canale integrata è solo un’idea che resta chiusa in un cassetto. La strategia è inutile se non viene eseguita nei posti che contano.
Il conflitto tra cassa e coerenza
Perché siamo in questa situazione? La risposta è un intreccio di logiche non allineate.
Da una parte, ci sono le società di gestione aeroportuale. Sono aziende con obiettivi di fatturato, e lo spazio pubblicitario è una delle loro più grandi fonti di reddito. Affittarlo ai brand del lusso è la via più semplice e redditizia: pagano molto, subito e senza bisogno di complesse negoziazioni con enti pubblici. È una logica di business ineccepibile, se presa singolarmente.
Dall’altra, dovrebbe esserci una visione di nation branding. Una strategia coordinata tra Ministeri, ENIT, Regioni e attori chiave (come gli aeroporti) per definire un’identità chiara del “Brand Italia” e comunicarla in modo coerente.
Il problema è che questa visione unitaria è debole o del tutto assente. E nel vuoto strategico, vince sempre la logica commerciale. Si sceglie la cassa immediata al posto della coerenza di lungo periodo. Il risultato è la diluizione del nostro brand: l’Italia diventa un contenitore generico, un Paese-vetrina, invece che il protagonista della sua storia.
Cosa si potrebbe fare? Smettere di lamentarsi e iniziare a costruire
L’analisi è inutile se non porta a un’ipotesi di soluzione. Criticare è facile, ma come se ne esce?
- Modelli ibridi di gestione degli spazi. Non serve eliminare la pubblicità commerciale, ma si potrebbe regolamentarla. Si potrebbe definire, per legge o tramite accordi quadro, che una percentuale fissa degli spazi pubblicitari negli aeroporti (ad esempio il 30%) sia riservata alla comunicazione istituzionale e turistica del Paese e della Regione, a tariffe calmierate. Un modello che bilancia interessi pubblici e privati.
- Da pubblicità a content experience. Invece di cartelloni statici, perché non usare i potenti mezzi digitali per creare vere esperienze di contenuto? Si potrebbero installare schermi interattivi che, in base alla lingua selezionata, mostrano video di artigiani al lavoro, itinerari nascosti, ricette locali. Trasformare l’attesa in un momento di scoperta. Si tratterebbe di parlare a persone, non a target.
Non servono formule magiche. Serve una regia. Serve che qualcuno si sieda a un tavolo e decida che il racconto dell’Italia è un asset troppo prezioso per essere appaltato.
La nostra più grande risorsa è la nostra storia, la nostra identità. E stiamo lasciando che il primo capitolo lo scriva qualcun altro. Forse, il primo passo per tornare a raccontare la meraviglia del nostro Paese è proprio questo: smettere di dare in affitto il nostro biglietto da visita al miglior offerente.