Un logo, infinite facce. Cosa ci insegna l’identità visiva di Los Angeles 2028.

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Serie di loghi di LA28

Come si disegna un logo per una città che non ha un’identità sola? Per un luogo come Los Angeles, un crogiolo di culture, storie e ambizioni che si contraddicono e si fondono ogni giorno?

Semplice: non se ne disegna uno. Se ne disegnano infiniti.

Questa è la premessa rivoluzionaria dietro l’identità visiva delle Olimpiadi di Los Angeles 2028. Una scelta che va ben oltre il design per diventare una dichiarazione strategica sul futuro del branding stesso.

Un brand vivo, fatto di persone

Il concetto, nella sua essenza, è tanto semplice quanto potente. La base del logo, la scritta “LA28”, è statica, nera, solida. Funge da ancora visiva, un punto fermo e riconoscibile. Ma la lettera “A” è un contenitore dinamico, una tela che cambia continuamente.

L’aspetto più importante è che queste variazioni non sono un esercizio di stile fine a sé stesso. Sono co-create da una moltitudine di voci: atleti come Simone Manuel, artisti come Billie Eilish, attivisti e designer, ognuno dei quali porta la propria storia, il proprio stile e il proprio punto di vista all’interno del brand. Il logo di LA28 non è un’immagine, è una conversazione.

Analisi strategica: rivoluzione o rischio calcolato?

Una mossa del genere, ovviamente, non è priva di rischi. Analizziamo i due lati della medaglia dal punto di vista di uno stratega.

I pro (la rivoluzione):

  • Da “per” a “della” comunità. È la prima volta che un brand di questa portata non si limita a parlare a una comunità, ma è la comunità stessa. La sua natura partecipativa lo rende intrinsecamente inclusivo e autentico.
  • Nativamente digitale e sociale. Nell’era in cui i social media la fanno da padrone, un logo statico è un limite. Un logo mutevole è una miniera d’oro di contenuti. Ogni nuova “A” è una storia da raccontare, un post da condividere, un dibattito da innescare.
  • Riflette l’identità reale. Los Angeles, per sua stessa natura, “sfugge a un’identità singola”. Un logo poliedrico e in continua evoluzione non è un artificio, ma il ritratto più onesto possibile di una città che non sta mai ferma.

I contro (il rischio):

  • Perdita di riconoscibilità? La regola aurea del branding è sempre stata la ripetizione. Un simbolo unico e forte si fissa nella memoria (ne parlavo nell’articolo del Visual Hammer). Questa fluidità estrema, specialmente su supporti statici come il merchandise o la cartellonistica, potrebbe diluire il messaggio e confondere il pubblico?
  • Perdita di controllo. Dare le chiavi del brand alla community significa cedere una parte del controllo sulla narrazione. È un atto di fiducia enorme, ma anche un’esposizione a interpretazioni o contributi che potrebbero non essere sempre allineati alla visione originale.
  • Effetto “Gimmick”? Alcuni critici hanno sollevato il dubbio che possa essere percepito come un espediente passeggero, una trovata creativa che manca della gravitas e della coesione necessarie per un evento globale. Il rischio di sembrare un’idea con una narrazione “ingegnerizzata a posteriori” è reale.

La lezione per tutti i brand: oltre il logo statico

Il caso LA28 ci costringe a ripensare alcuni dei dogmi del branding. La lezione più importante è il passaggio da un brand “monumento” a un brand “piattaforma”. Il logo tradizionale è un monumento: statico, intoccabile, calato dall’alto per essere ammirato. L’identità di LA28 è una piattaforma: uno spazio aperto che non impone un’unica visione, ma abilita e amplifica l’espressione di molti.

Questo ci porta a una distinzione strategica: coerenza, non consistenza. La consistenza visiva (usare sempre e solo lo stesso logo) viene deliberatamente sacrificata in nome di una coerenza valoriale molto più profonda. Ogni “A” è diversa, ma tutte insieme comunicano in modo coerente i valori del brand: diversità, creatività, inclusione, partecipazione.

È un modello replicabile per un brand commerciale? Per una banca o una casa automobilistica, l’anarchia visiva totale sarebbe probabilmente un suicidio. Ma potrebbero adottarne la filosofia? Assolutamente sì. Immagina un brand che permette ai suoi dipendenti di “firmare” le comunicazioni con una versione personalizzata del logo, o a un’azienda tech che adatta la sua icona per celebrare le innovazioni della sua community di sviluppatori.

Le possibilità sono infinite, una volta che si smette di pensare al brand come a un oggetto sacro.

LA28 non sta solo creando un logo per un evento che si terrà tra anni. Sta proponendo, forse senza nemmeno dichiararlo, una nuova definizione di “marca” per il XXI secolo. Un’identità che non è più un’immagine statica da proiettare, ma un’entità viva, che respira, che cambia e che ascolta.

La domanda che ogni stratega dovrà porsi, d’ora in poi, non sarà più “il mio logo è bello?”. Sarà: “il mio logo è vivo?”.

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