Registrare un Meme per ucciderlo: la mossa inaspettata di Raoul Bova con “Occhi Spaccanti”

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Registrare un Meme per ucciderlo: la mossa inaspettata di Raoul Bova con "Occhi Spaccanti".

Puoi mettere un copyright su un meme? Puoi rivendicare la proprietà di una frase che, nel bene e nel male, è già diventata di tutti? Raoul Bova ci sta provando, e la sua mossa potrebbe riscrivere alcune regole della difesa della reputazione online.

Quello che stiamo osservando non è un semplice fatto di gossip, ma un caso di studio quasi perfetto che si muove sul confine tra crisis management, diritto dei marchi e cultura di internet. Un esperimento che merita di essere analizzato con gli strumenti dello stratega, non con quelli del commentatore da social.

Dal vocale privato al marchio registrato: cronaca di una difesa

Ricostruiamo la catena degli eventi. Tutto parte dalla diffusione illecita di un messaggio vocale privato, un atto che di per sé costituisce una grave violazione della privacy. All’interno di quel vocale, una frase: “occhi spaccanti”. In poche ore, la frase viene estrapolata, decontestualizzata e trasformata in un tormentone virale.

Diventa un meme. Viene usata da migliaia di utenti per video ironici, ma anche – e qui la questione cambia – da brand più o meno noti per campagne di instant marketing.

La reazione di Raoul Bova arriva inaspettata. Il 13 agosto emerge la notizia: attraverso la sua società, ha depositato la richiesta di registrazione della frase “occhi spaccanti” come marchio presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi. La battaglia si sposta dal piano della comunicazione a quello legale.

Analisi della strategia: mossa geniale o autogol annunciato?

Questa decisione va sezionata e analizzata da due prospettive opposte, perché entrambe nascondono una parte di verità.

L’Intenzione (la difesa controintuitiva)

La logica dietro questa strategia è più raffinata di quanto possa sembrare. Non è un tentativo di “possedere” un meme o di denunciare chiunque lo usi per scherzo. È una mossa difensiva che usa un’arma del “vecchio mondo” (il diritto dei marchi) per arginare un problema del “nuovo mondo” (la viralità incontrollabile). L’obiettivo è preciso: scoraggiare lo sfruttamento commerciale. Registrare il marchio dà a Bova uno strumento legale per inviare diffide a quelle aziende che stanno provando a monetizzare una palese violazione della sua privacy. È un segnale forte per dire: “Avete trasformato un illecito in un’opportunità di marketing? Ora ne pagate le conseguenze”. È un tentativo di riprendere, almeno legalmente, il controllo della propria immagine e di tracciare una linea invalicabile tra l’uso ludico e lo sfruttamento economico.

Il Rischio (l’Effetto Streisand)

Qui, però, la strategia mostra le sue possibili crepe. Il rischio più grande si chiama “Effetto Streisand“: quel fenomeno per cui un tentativo di censurare o rimuovere un’informazione non fa che amplificarne la diffusione. La notizia della registrazione del marchio ha dato al meme una seconda ondata di popolarità, portandolo all’attenzione anche di chi se l’era perso. Inoltre, la mossa rischia di far apparire Bova come una persona che non comprende le dinamiche fluide e “open source” della cultura di internet, dove nulla può essere davvero posseduto. Potrebbe essere percepita come una reazione sproporzionata, quella di chi “non sa stare al gioco”, e questo potrebbe ritorcersi contro la sua immagine pubblica, facendolo apparire meno accessibile e più distante.

La lezione per il personal branding e la gestione delle crisi

Cosa ci insegna questo caso sulla gestione della propria reputazione oggi? Innanzitutto, evidenzia lo scontro frontale tra gli strumenti legali tradizionali, lenti e deliberati, e la velocità anarchica e istantanea della cultura digitale. La legge offre una tutela, ma spesso arriva quando il “danno” reputazionale (o la viralità) è già avvenuto e non può essere annullato.

Questo caso potrebbe creare un precedente interessante, aprendo la strada a nuove forme di difesa del personal branding. Ma potrebbe anche diventare un manuale di cosa non fare, dimostrando l’inefficacia delle armi legali contro un fenomeno culturale così pervasivo.

Il caso “occhi spaccanti” ha smesso di essere un meme nel momento in cui è diventato un esperimento sulla frontiera del diritto e della comunicazione. Non è più una questione di ironia, ma di controllo, proprietà e strategia.

La vera domanda, alla fine, non è se Raoul Bova vincerà in tribunale e otterrà la registrazione del marchio. La domanda, per chi fa il nostro mestiere, è un’altra: si può davvero imbrigliare, controllare o “possedere” un pezzo di cultura di internet?

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