“Ti affideresti mai a un algoritmo per raccontare chi sei?”
È una domanda provocatoria, lo so. Ma me la sono fatta davvero quando un cliente, qualche mese fa, mi ha chiesto: “Non possiamo usare l’intelligenza artificiale anche per definire il nostro brand?”. Era reduce da una maratona su ChatGPT, aveva generato loghi con Looka e persino impostato i primi testi per il sito con Notion AI. Risultato? Un’identità che sembrava uscita da un generatore casuale di startup fintech del 2019.
Perché sì: oggi l’IA può supportare anche nel branding. Ma il punto non è più se usarla. È come farlo senza perdere l’anima per strada.
Branding e Intelligenza Artificiale: una coppia che funziona, ma solo se non si somigliano troppo
Chi lavora sul branding sa che ogni dettaglio – dal tono di voce alle scelte cromatiche – nasce da un’intuizione precisa, spesso guidata da esperienza, osservazione e contesto. L’IA non possiede niente di tutto questo. Analizza dati, individua pattern, restituisce soluzioni statisticamente sensate. Ma un brand non vive di statistiche: vive di significato. E per costruire significato serve una direzione, non solo un output.
Dove l’IA può fare (bene) la differenza
L’errore non è usare l’IA. L’errore è pensare che basti. Gli strumenti sono tanti – e utilissimi – ma vanno usati con intelligenza. Ecco cosa puoi automatizzare senza sensi di colpa:
- Bozze di naming e payoff, da validare con test e occhio critico
- Varianti visive con Midjourney, Firefly o Runway
- Wireframe o landing page da costruire e rifinire
- Analisi del sentiment, insight dai feedback, clustering automatico delle recensioni
- Creazione di contenuti di supporto, piani editoriali, caption, script base
Ma attenzione: nessuno di questi strumenti può dirti chi sei come brand. Nessuno può sostituire la tua visione.
Il vero rischio? Brand tutti uguali
L’intelligenza artificiale lavora su media, non su eccezioni. Vuol dire che per sua natura tende ad appiattire: propone ciò che è più comune, più frequente, più “già visto”. E questo, in un mercato dove emergere è questione di pochi secondi, è letale. Il rischio è costruire brand che si somigliano tutti: stesso tono, stessi colori, stesse promesse. Tutti “affidabili”, “innovativi”, “vicini al cliente”.
Ecco perché l’IA va trattata come un acceleratore creativo, non come un pilota automatico.
Umanità aumentata, non sostituita
Pensala così: usare l’IA per il branding è come avere un drone per le riprese video. Ti dà nuove prospettive, ti velocizza i test, ma senza occhio registico… non funziona. Serve sempre qualcuno che sappia scegliere l’angolazione giusta.
Un payoff generato da IA? Buon punto di partenza, non di arrivo.
Una palette suggerita da un algoritmo? Ottimo spunto, ma la decisione finale deve essere tua.
Un logo creato con un click? Meglio di niente… ma meglio ancora se ci metti sopra la tua esperienza.
Quindi: IA e branding sì, ma con le mani ben salde sul timone
La tecnologia ti può alleggerire il lavoro, velocizzare la fase creativa, aprire scenari nuovi. Ma resta uno strumento. Potente, sì. Ma cieco. Serve ancora un brand strategist. Uno vero. Uno che sappia fare domande, leggere tra le righe, anticipare i trend e posizionarti dove gli altri non guardano.
Curioso di capire come iniziare? Scrivici: ti facciamo vedere in diretta cosa automatizzare e cosa no.
Condividiamo lo schermo, ci mettiamo le mani, niente fronzoli. Solo branding vero.